È difficile pensare che oggi un film storico, per di più ambientato in epoca romana, possa ancora interessare il pubblico, anche considerando i notevoli flop al box-office a cui il genere è andato incontro dopo la pandemia. Ed è proprio qui che Ridley Scott ha sorpreso tutti, dando vita a un progetto che pareva impensabile agli occhi di tutti: un sequel de Il Gladiatore. Quella del regista britannico si è dimostrata un’impresa molto coraggiosa che, seppur in un modo turbolento e con un approccio molto diretto da parte di Scott, ha chiuso la storia del generale Massimo Decimo Meridio (apparentemente conclusa nel primo film) e del suo retaggio. Il regista non si è fatto scrupoli nel realizzare un film che sembra essere una fotocopia del primo, per poi stupire con risvolti di trama inaspettati e differenze notevoli.
Confrontare questo film col predecessore risulta spontaneo. La premessa con cui la storia comincia è molto somigliante: Lucio Vero (Paul Mescal), figlio di Lucilla (Connie Nielsen) e nipote di Commodo del primo film, viene fatto schiavo dopo che la sua città è stata assediata dal generale Acacio (Pedro Pascal) e viene preso sotto l’ala di Macrino (Denzel Washington), un ambizioso mercante di schiavi che lo porta a combattere nel “più grande tempio che Roma abbia costruito”, il Colosseo. In questo periodo Roma è sotto controllo degli imperatori gemelli Geta (Joseph Quinn) e Caracalla (Fred Hechinger), completamente privi di valori, dediti solamente all’ozio e mentalmente instabili. La corruzione dilaga “come la peste”, valori come l’onore sono stati abbandonati da parecchio tempo e la città è destinata a cadere.
Ogni personaggio pare essere un’emulazione dei personaggi della pellicola del 2000, ma anche in questo caso la sceneggiatura cambia le carte in tavola. Il film ripropone molte situazioni ricorrenti nel primo Gladiatore, ma caratterizzate da una notevole immediatezza, che a volte puó essere disturbante o disorientante. Tutto pare forzato o addirittura programmato e la narrazione si trasforma in un grande “mappazzone”: un vortice dove è possibile perdersi e non comprendere il vero senso della storia. Ragione di tale scelta è sicuramente la fretta di sviluppare in poco più di 2 ore una trama molto più elaborata del previsto e le differenze tra i due protagonisti della saga: il generale romano Massimo desiderava vendicare la morte della sua famiglia e raggiungerla nei Campi Elisi, di conseguenza affronta la vita da gladiatore in modo molto rassegnato e malinconico; Lucio, reale erede al trono, costretto a fuggire e a ricostruirsi una vita altrove per la propria sopravvivenza, brama un ritorno alle origini, perciò approccia la situazione in modo molto più consapevole, quasi privo di tristezza perché mosso dal desiderio di scontrarsi col proprio passato.
Al di là della confusione che si può provare, il risultato è soddisfacente: la storia chiude il cerchio e risulta coerente con il messaggio che già “Il Gladiatore” voleva mandare: un film che si schiera apertamente contro la guerra e mostra gli effetti degeneri del potere, se affidato a persone ignoranti o prive di etica.
Complici i 47 anni di carriera e un immaginario storico come pochi, Ridley Scott riesce a rendere a pieno la dimensione epica tipica di kolossal come “Ben-Hur” o “Spartacus” e ci riporta nel Colosseo rappresentandolo nella maniera più mastodontica possibile. Col costante sottofondo del boato della folla, il regista ci regala sequenze d’azione impressionanti: combattimenti all’ultimo sangue in cui Lucio e i gladiatori, desiderosi di libertà, fronteggeranno uomini, ma anche feroci animali (non solo su terra, ma anche sull’acqua). Ogni scontro è caratterizzato da un’eccitazione che prende lo spettatore sin dalla sua preparazione, accompagnata da inquadrature in slow-motion o discorsi solenni (anche se statici), fino al pieno svolgimento, in cui vengono raggiunti elevati climax di violenza.
Contrariamente al primo film, grazie ad una CGI capace di compiere l’impossibile e un budget lievitato da 165 milioni di dollari a 300, è stato possibile realizzare in quantità maggiore scene d’azione molto più laboriose e impattanti. Il Colosseo diventa ancora luogo in cui, non solo affermare l’onore, ma anche dove i loschi piani della classe dirigente romana vengono attuati, piani contro ai quali Lucio e le persone che ancora coltivano il sogno di una Roma giusta combattono: un’arena dove viene deciso il destino dell’impero. Si respira una genuina aria di antica Roma grazie ad una fotografia eccezionale e una ricostruzione della città inaspettatamente fedele, ma soprattutto realistica e pittoresca, nella quale il fascino dell’architettura e lo sfarzo sono contrapposti alla sporcizia e alla povertà. Nota dolente, come era prevedibile, sono i numerosi errori storici: alcuni decontestualizzati ma non errati, altri completamente privi di un qualsiasi senso logico (dalle scritte sui muri in inglese ad attori con facce fin troppo americane).
La colonna sonora, nel suo insieme, è mediocre, se non per qualche traccia (anche se nel finale riserva forse il miglior omaggio che questo film potesse fare al suo predecessore). Paul Mescal, giovane promessa nel panorama hollywoodiano, dimostra ancora una volta il suo impareggiabile talento, questa volta in ruolo che lo vede protagonista del suo primo blockbuster: colpisce molto la sua presenza fisica, che accresce la tensione nei combattimenti e in tutta la pellicola. A rubare la scena sono però Denzel Washington, completamente trasportato nella parte, e Pedro Pascal, interprete dell’ennesimo personaggio con cui empatizzare e per cui provare adorazione.