L’Area Studi di Mediobanca, società di ricerche e studi economici e finanziari, a marzo ha presentato un report sul sistema universitario italiano1. Nel suo studio sono stati esaminati 61 atenei statali e 31 non statali o liberi di cui 11 telematici, che a loro volta sono stati raffrontati a livello internazionale. Sono così emerse sia le criticità che i punti di forza della formazione universitaria italiana: il nuovo ruolo delle università telematiche, l’attrattività verso gli studenti internazionali, il divario tra Nord e Sud, le difficoltà affrontate dagli studenti…
Dal confronto con i paesi dell’Ue e con i paesi Ocse (paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un’economia di mercato) emerge la prima grande differenza: i finanziamenti stanziati da parte dello Stato. Questo, in Italia, per la formazione universitaria contribuisce per il 61% del totale, contro il 76% dell’Ue e il 67% dell’Ocse. Nel nostro Paese il resto della quota è sostenuta per il 33% dalle famiglie, mentre per il 14% dalle famiglie dell’Ue e per il 22% dalle famiglie dei paesi Ocse. Più in generale i dati evidenziano la differenza nell’impegno per sostenere i propri atenei, infatti l’Italia li finanzia con meno dell’1% del Pil, al contrario della media Ue del 1,3% e l’1,5% della media Ocse.
Questi dati influiscono sul fatto che l’Italia si trova al penultimo posto in Europa per numero di laureati?
Dallo studio è emerso che vengono spesi 12.663 dollari per ogni studente full time in Italia, mentre parliamo di 14.631 in Spagna, di 18.880 in Francia e di 20.760 in Germania, con una media complessiva nell’Unione Europea di 17.578. Nello Stivale è il Mezzogiorno ad essere il più colpito dalla scarsità dei finanziamenti, non per nulla si parla di fuga dal Sud. Un fattore determinante è la carenza delle infrastrutture: nel Sud e nelle isole il tempo medio stimato per raggiungere il proprio ateneo supera i 150 minuti, in netto contrasto con la media italiana di 88 minuti.
A queste problematiche si aggiunge lo scarso respiro internazionale delle università e la bassa ricettività degli studentati. A tal proposito si stima l’offerta di un posto letto ogni 9 studenti fuorisede, anche se alcune stime trovano più corretto il rapporto di un posto ogni 21 matricole. Questa criticità, malgrado colpisca maggiormente il Sud, non lascia indifferente nemmeno il Nord. Senza dimenticare l’appeal delle università straniere, scelte sempre più spesso dai diplomati italiani.
“Secondo me agli atenei italiani manca ben poco, per non dire nulla”, ha commentato a L’Ora Buca Gianni Ferretti, prorettore del Polo Territoriale di Cremona del Politecnico di Milano, “Tutte le ultime classifiche dicono che la formazione universitaria in Italia è di livello molto elevato: chiunque si iscriva nel nostro Paese è sicuro di entrare in un’università che è abbastanza ben classificata nelle graduatorie internazionali. Chiaramente non abbiamo i top che possono essere università americane come MIT o Stanford, però bisogna anche pensare alla disparità dei finanziamenti a cui possono accedere. Quindi, nonostante la ristrettezza dei bilanci, i dati dimostrano che le università italiane in generale sono di un ottimo livello. Quello che manca purtroppo è il contorno:”, sottolinea il dirigente, “il diritto allo studio, le residenze e gli alloggi, la possibilità di affrontare una vita in modo indipendente studiando. Tutte cose che all’estero hanno ma che noi, purtroppo, in Italia stentiamo ad offrire.”
Negli ultimi anni abbiamo assistito, non a caso, ad un decollo delle università telematiche, nate in Italia circa vent’anni fa. I dati sono schiaccianti: dal 2012 c’è stato un incremento del +112,9 % per il numero di corsi, +410,9% il numero di iscritti, +102,1% del corpo docente. Dai dati del Miur risultano 125.085 gli iscritti alle università telematiche nel 2021. Queste università si propongono come ottima alternativa per chi è già nel mondo del lavoro e soprattutto per gli studenti che non possono sopperire ai costi da fuorisede.
“Le università telematiche non sono la risposta alle difficoltà che possono incontrare gli studenti fuorisede”, ha proseguito Ferretti. Il dirigente sostiene che “l’Università non ha solo il compito di trasmettere il sapere, ha anche e soprattutto il compito di creare il sapere tramite la ricerca. Un università è tanto più eccellente quanto più fa ricerca di eccellenza”.
Insieme all’incremento degli iscritti alle università online si è registrato anche un decremento degli iscritti agli atenei statali, malgrado questi realizzino performance migliori delle università private.
“Le grandi università sono famose per la qualità della didattica,”, ha proseguito Ferretti, “ma soprattutto perché lì insegnano ricercatori che hanno fatto la storia nelle loro discipline. Per definizione, un’università telematica non svolge attività di ricerca, quindi si insegnano cose che altri vanno a scoprire o che possono trasmettere più direttamente nella loro didattica”.
Le grandi università sono famose per la qualità della didattica, ma soprattutto perché lì insegnano ricercatori che hanno fatto la storia nelle loro discipline. Per definizione, un’università telematica non svolge attività di ricerca, quindi si insegnano cose che altri vanno a scoprire
Una delle “accuse” che si possono muovere al sistema universitario italiano riguarda poi il corpo docenti: pochi e troppo anziani. I prof under 40 in Italia costituiscono solamente il 15,1%, contro il 19,7% della Spagna, il 30,5% della Francia e il 52,1% della Germania. Il 56% del corpo docenti italiano è invece costituito da over 50. Un dato, quello anagrafico, che di per sé non ha un valore assoluto negativo, ma può avere effetti indiretti se all’avanzare dell’età del docente non si accompagna un adeguamento della sua didattica, del linguaggio e dell’approccio con gli studenti.
“Non vedo una difficoltà legata alla minore o peggiore efficacia di un docente di età avanzata,”, ci spiega Ferretti, “vedo piuttosto il problema del fatto che mancano i rincalzi, mancano le sostituzioni, manca la freschezza che un giovane ricercatore può avere. La parte più significativa, e ritorno sempre al discorso della ricerca, la parte più produttiva svolta da un ricercatore avviene nella sua giovane età. Se stentiamo a farli accedere a posizioni che consentono loro di portare avanti il loro lavoro non avremo quel ricambio generazionale che è indispensabile. Non è un problema di efficacia nell’insegnamento, perché l’esperienza conta, però è un problema il fatto che non si creda abbastanza nelle nuove generazioni dal punto di vista della ricerca.”.
Tuttavia ci sono anche dei fattori positivi emersi da questo studio sugli atenei del nostro Paese: c’è stato un aumento dei corsi cosiddetti STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) riguardanti discipline scientifico-tecnologiche. Sono stati anche riscontrati segnali di miglioramento negli studenti, visto che il 77% degli iscritti non è fuoricorso e le valutazioni di uscita sono in aumento.