
“Ci approcciamo con grande fiducia a questo tema, perché il 2025 è l’anno della speranza”: Francesca Mazzini, insegnante e moderatrice della serata, ha aperto con queste parole l’incontro sulla Giustizia Ripartiva che si è tenuto sabato 1 febbraio nella Sala dei Quadri del Palazzo Comunale di Cremona.

L’appuntamento culturale e di riflessione, nobilitato dalla presenza della docente di Diritto penale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Claudia Mazzucato e da padre Guido Bertagna, gesuita e mediatore penale, ha gremito la stanza di cittadini curiosi e interessati alla tematica profonda, poco discussa e per certi versi controversa, che ha invitato gli spettatori a guardare alle colpe e ai colpevoli con occhi diversi. La presentazione dell’argomento è stata introdotta da più voci che hanno espresso aspetti diversi di un concetto delicato come la giustizia: tra queste Eugenio Bignardi, responsabile dell’ufficio della Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Cremona, che ha esortato al superamento di una mentalità per cui la guerra è inevitabile.

“Giustizia e pace si baceranno?”: nel titolo dell’incontro risalta il punto interrogativo finale, preceduto da un verbo al futuro, entrambi simboli di una situazione ancora incerta e in divenire: la giustizia non genera ancora la pace e la pace non trova sempre habitat nel nostro mondo.

Al momento nel mondo ci sono 54 conflitti dichiarati apertamente e altrettanti non dichiarati, hanno spiegato i relatori. Un dato che colpisce e che può porre un interrogativo: come può esserci tanto odio tra uomini tale da portare un così consistente numero di conflitti armati? “In un mondo dove l’uccisione del nemico è la nostra unica soluzione, dove la guerra ci schiaccia e sovrasta i nostri voleri, il rimedio potrebbe essere un ideale di giustizia che rispetti i diritti inalienabili di ogni individuo”: con questa considerazione Guido Bertagna ha iniziato il suo discorso ricco di poesia e di valori sulla giustizia riparativa. Questo metodo di giustizia è incentrato sul confronto, sul trasformare in parole quello che si porta dentro e porgere entrambe le orecchie alle confessioni dell’altro, in modo disarmato, correndo il rischio di non trovare risposta immediata. Ma soprattutto si basa sul silenzio, molto più eloquente nel dimostrare di avere tempo di prestare attenzione e rendere importanti le parole. Molte volte è meglio vivere che dire. É meglio venire alla verità in un percorso attraverso l’oscurità, che rimanere nell’ombra senza conoscere.

Il percorso raccontato da padre Bertagna ha origine il 7 dicembre 2008, quando un gruppo di alcune persone provenienti da gruppi armati degli anni di piombo e dalle famiglie delle vittime si è riunito. Le loro storie sono fatte di tanto silenzio, di scambi di sguardi e lettere profonde, ma soprattutto di cuori aperti, disposti a scavare in un passato che grava ancora oggi su di loro, poiché la materia prima per risolvere con giustizia sono i racconti di coloro che hanno taciuto per tanto tempo. La realtà si diffuse inizialmente a Milano, per poi proseguire a Roma sotto forma di incontri mensili, alcune volte “privilegiati” dalla possibilità di dormire sotto lo stesso tetto o mangiare allo stesso tavolo. “Questo cammino ci ha costretti a capire che il dolore è anche degli altri, che nessuno ha l’esclusiva di questo”, ha concluso Bertagna, sottolineando come il dolore venga scongelato nei cuori di queste persone e permetta di portare nella propria memoria anche quello dell’altro.
Bisogna disarmarsi per disarmare. Il passato di uno è anche quello dell’altro e viene condiviso per far sì che non ferisca più di quanto abbia già fatto, per dar spazio al “molto” di quella vicenda che il processo penale non ha avuto possibilità di osservare: questa è l’essenza della giustizia riparativa.

“Incontrare i propri amici non è improbabile, il proprio nemico invece sì”, questo è ciò che rende unico l’incontro secondo Claudia Mazzucato, che ritiene fondamentale porre domande che consentano di parlare delle cose necessarie, non per giudicare, sopraffare o ricevere informazioni, ma per concedere unità a chi è diviso. La giustizia riparativa è la discesa verso un percorso accidentato, scandaloso, difficile, non benevolo, che attraverso il confronto concede giustizia al dolore inconsumabile di chi lo subisce o ne è causa: “La definizione di “giustizia riparativa” è quella che è contenuta nella legge e nelle fonti internazionali: partecipare insieme attivamente, in modo libero e volontario, a costruire un futuro diverso. Chi partecipa? Le vittime, le persone accusate o che hanno commesso un reato, la comunità, chiunque vi abbia interesse. Questo percorso deve essere sicuro e confortevole, ma è difficile. Per questo non bisogna liquidarlo come qualche cosa di mite, buono, semplice, facile, volto la riconciliazione e al perdono, perché si taglierebbe la fatica, anche un po’ scandalosa, di andare incontro alle persone più improbabili“.

La parola “punito”, ha sottolineato la docente, è usata in una sola occasione nella Costituzione perché la legge è una fonte di protezione, non di oppressione, e la giustizia è tutela, non punizione. “Nell’articolo 13 della Costituzione è punita qualsiasi forma di violenza fisica o morale nei confronti di chi è comunque ristretto nella libera. I costituenti avevano conosciuto la prigionia politica, avevano conosciuto l’essere chiamati a rispondere di reati politici che in un sistema democratico non sono reati, perché appunto il reato è un0ffesa. La Costituzione vede la legge come fonte di protezione, non come fonte di oppressione. E la giustizia come tutela più che come punizione“.