Attenzione e coinvolgimento: sono queste le parole che si leggevano negli occhi dei tanti, tantissimi presenti nel pomeriggio del 3 maggio presso l’ Aula Magna dell’Ospedale Maggiore di Cremona per la presentazione del libro Di cosa è fatta la speranza, romanzo biografico su Cicely Saunders, inventrice delle cure palliative, scritto e presentato da Emmanuel Exitu, in compagnia di Alessio Faliva, Direttore della UO Complessa di Cure Palliative dell’A.S.S.T. di Cremona e di don Maurizio Lucini, Assistente spirituale Hospice. L’evento è stato promosso dal Centro Culturale Sant’Omobono, in collaborazione con l’A.S.S.T. di Cremona, l’ufficio della Pastorale della salute della Diocesi e l’Associazione cremonese per la cura del dolore ed è stato moderato dal giornalista Cristiano Guarneri.
La speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere. La speranza è fatta di istanti che restano a lungo. La speranza è fatta di cose che non si capiscono.
È fatta di limiti.
Infermiera, assistente sociale e poi medico, Cicely Saunders ha lottato tutta la vita per restituire dignità ai malati terminali, che fino agli anni 70 del Novecento erano abbandonati dai medici perché “non c’è più niente da fare”, fondando nel 1967 a Londra il primo hospice moderno. Un tema complesso, quello delle cure palliative, sul quale sono intervenuti i vari ospiti, a partire dal dottor Faliva, che ha spiegato come il rapporto tra medico e paziente è anch’esso “tempo di cura”: non bisogna guardare quanto ne viene dedicato, eppure oggi è sempre meno, con liste d’attesa lunghissime e medici in difficoltà. Le cure palliative invece permettono di fermarsi, di dedicare agli assistiti tutto il tempo di cui hanno bisogno, perché “troppo spesso si identificano i pazienti solo con la patologia, invece loro sono molto di più, sono persone”. Negli hospice diventa possibile una vera alleanza terapeutica, tra chi assiste, chi è assistito e la famiglia, realtà che vive parimenti una situazione di estremo dolore.
Ma com’è possibile parlare di speranza se il luogo in questione è quello dove si accompagnano le persone nel fine vita? Ha risposto chiaramente don Lucini: “In Hospice succedono le cose più semplici, ma che hanno una potenza, una luce, una vita incredibile. Non è un luogo di morte, ma di vita: è un luogo di speranza. Come? Il fatto che qualcuno raccolga la mia speranza, i miei desideri, si affianchi al mio tragitto, al mio cammino: ciò le fa prendere corpo. Chi attraversa la malattia in solitudine non può che incontrare la disperazione. Perché sussista la speranza ci dev’essere qualcuno che la accolga, che cammini insieme a me”. Prendendo in prestito le parole dello scrittore Emmanuel Exitu, ha proseguito il cappellano dell’Hospice, “nelle cure palliative si gioca tutto quello che si è: non si aggiungono giorni ma si cerca di aggiungere più vita ai nostri giorni. Ciò che succede lì è qualcosa di paradigmatico dell’intera esistenza. Le cure palliative curano la malattia delle malattie, la solitudine. Che cosa cambia quando scopriamo di essere malati? Il tempo, la sua natura e la sua concezione”.
Ciò che è emerso da tutte le testimonianze è proprio la scelta di dare dignità alla persona in un momento così delicato, di di essere lì per permettere anche solo gesti semplici, ordinari, ma carichi di significato e vita. Come due parole scambiate, dette o ascoltate, per esempio quando gli anziani raccontano la loro storia perché hanno bisogno che qualcuno la raccolga, gli dica che abbia avuto un senso. E quando il dolore è troppo forte da non far uscire più voce dal corpo, l’esserci nonostante tutto, il poter contare su di loro. In questa condivisione nasce la speranza, perché essa “è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere”.