Una lunga e immensa ondata di empatia, fatta di commozione, strette di mano e abbracci è ciò che ha travolto l’autore Emmanuel Exitu alla fine della presentazione del suo romanzo “Di cosa è fatta la speranza”, nella serata del 3 maggio, nell’Aula Magna dell’ospedale di Cremona. Abbiamo avuto anche noi l’occasione di scambiare due parole con lo scrittore e story editor bolognese.
Proviamo ad aggiungere un punto di domanda al titolo del suo libro: di cosa è fatta la speranza?
La speranza è fatta di cose che hanno bisogno di persone che le fanno accadere, quindi la speranza ha bisogno di noi. Ha bisogno, come è nella storia di Cecily, di qualcuno che non si accontenta della frase “non c’è più niente da fare” ma che, anche se non sa bene che cosa fare, si sbatte perché deve trovare il modo di fare qualcosa. Questo nelle cure palliative è particolarmente strano, perché è come fare un passo indietro, è come lasciare spazio e ascoltare il malato. È questa cosa che rende possibile la scintilla della speranza: che accada qualcosa che uno pensa che non possa accadere ma, se deve accadere, è solo se qualcuno si apre. Poi non accade sempre, perché anche l’altro con cui tu sei in rapporto deve aprirsi, però il fatto che uno si apra crea l’occasione perché la speranza si possa accendere.
Se e come l’ha cambiata la scrittura di questo romanzo?
Mi ha cambiato tutto. Me ne sono reso conto scrivendo, perché io ho scritto per 3 anni scrivendo e buttando, scrivendo e buttando, perché…faceva schifo! Quando poi la cosa ha cominciato a decollare, verso la fine del lavoro, mi sono reso conto che io ho sempre evitato di scrivere, diciamo, letteratura. Perché questo non è un romanzo che è stato scritto per diventare immediatamente un film: è un romanzo, il cuore era la scrittura e la scrittura sei tu. La scrittura ti “sbudella” e, quindi, mi ha cambiato sbudellandomi, tirandomi su cose che neanche io sapevo di avere e che avevo bisogno di affrontare: adesso mi sento più forte da questo punto di vista, ma molto più forte.
In uno dei passaggi della descrizione della sofferenza ha detto che in realtà la malattia delle malattie è la solitudine.
Quello che io ho capito facendo questo lavoro, cioè mettendomi a scrivere sbudellandomi, è stato che a me interessava andare dentro alle cure palliative perché è una risposta a un problema di cui tutti parlano e di cui sembra che l’unica vera risposta sia l’eutanasia, mentre invece c’è una risposta che è densa di ragione e che è densa di dignità, che sono le cure palliative. Mi sono reso conto che le cure palliative sono un paradigma, sono un qualcosa che rispecchia tutto quello che avviene nel resto della vita, perché in loro, in questo prendersi cura c’è qualcosa che va a guarire: è terapia della malattia delle malattie che è la solitudine. Perché di fronte alla morte, uno si sente solo; di fronte al limite, uno si sente solo… e scopre che non è solo perché ci sono i medici palliativisti, ci sono tutte le persone che ti aiutano ad affrontare questo passaggio. E questo aspetto di dire “tu non sei più solo” è qualcosa che moltiplica le tue energie.
Le cure palliative sono una risposta a un problema di cui sembra che l’unica vera soluzione sia l’eutanasia, mentre invece c’è una risposta che è densa di ragione e di dignità. Nelle cure palliative, in questo prendersi cura, c’è qualcosa che va a guarire: è terapia della malattia delle malattie che è la solitudine.
Ha deciso di intitolare la seconda parte del libro “Vita nova”, con un chiaro riferimento a Dante: ce lo spiega?
Si perché mi piaceva l’idea di scrivere un libro, un libro che tratta del fine vita e sappiamo come va a finire… perché muoiono tutti. Mi piaceva l’ironia di dividere il libro in due parti. La prima parte, dove Cicely si rende conto di qual è il problema, si chiama “Vita” e finisce con la morte del paziente fondatore e del grande rapporto che le ha dato l’idea di costruire l’hospice: è una storia d’amore pazzesca che a lei ribalta la vita e rimane accesa per sempre anche se dura 52 giorni (però per scoprirla dovete leggerla nel romanzo!) e finisce con la morte di David. Ed era ironico, perché la vita è ironica, raccontare la seconda parte come “Vita Nova”, un po’ come Dante diciamo: l’idea di vita, c’è una novità di vita che irrompe, che tu non puoi prevedere e che ti fa fare qualcos’altro che tu non avevi in mente di fare, che è molto di più di quello che all’inizio pensavi di fare.
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