

Giovedì 10 aprile si è tenuto il quarto appuntamento di GIOvedì GIOrnalismo GIOvani, il ciclo di incontri promosso da L’Ora Buca e Informagiovani. Ogni incontro è un’occasione unica per conoscere da vicino i protagonisti del mondo del giornalismo, attraverso interviste che raccontano esperienze e storie da ambiti molto diversi tra loro e protagonista dell’ultima chiacchierata è stato Angelo Macchiavello, giornalista Mediaset e inviato di guerra.

“I giornalisti sono di due tipi o fai il direttore o fai l’inviato”, ha esordito il cronista di Videonews, trasmettendo da subito la grande passione per il suo mestiere. “L’inviato è meraviglioso perchè sei quello che va a raccontare le cose, vai a raccontare la storia, ti trovi in certi casi al centro della Storia con la S maiuscola che i miei nipoti studieranno a scuola. E per me è la cosa per cui vale assolutamente la pena fare il giornalista”. Simpatico e autoironico, figlio di un inviato del “Il Corriere dell’Informazione”, Macchiavello è cresciuto respirando l’aria del giornalismo e ha capito fin da giovane che quella sarebbe stata la sua strada, pur rivelando che da bambino sognava di diventare… Papa! Come spesso accade, la sua carriera è iniziata da un piccola testata specializzata in tennis. Il suo primo articolo? “Racchetta piccola o racchetta grande?”, un tema molto lontano da quelli drammatici che affronta oggi come inviato di guerra.


In televisione, racconta lui stesso, ci è arrivato quasi per caso. Inizialmente coinvolto in un programma dedicato ai cani sponsorizzato da una nota marca di crocchette, per il suo primo servizio giornalistico fu mandato a Forte dei Marmi a raccontare un’alluvione che aveva provocato cinque vittime, un evento che il collega più esperto presente a Milano considerava di poca importanza. “Da quel momento io non sono più rientrato in redazione, perché lo trovavo davvero un lavoro meraviglioso”, ha raccontato Macchiavello, spiegando che anche il suo primo incarico di guerra è nato in modo simile: la guerra in Kosovo veniva considerata da un inviato più esperto come un conflitto di “serie B”, così fu proprio lui a essere inviato sul campo. Macchiavello ha poi illustrato in modo chiaro alcuni dei principali aspetti della sua professione.
Per prima cosa ha spiegato come viene deciso chi deve essere inviato e dove: la scelta spetta al direttore, ma anche l’inviato può proporre idee e destinazioni. Il preavviso per la partenza può variare molto a seconda della situazione, motivo per cui Macchiavello tiene sempre il passaporto con sé, pronto a partire in qualsiasi momento.
“Spaventarsi e farsela addosso è normale, solo un cretino non ha paura”. Questa frase, tanto semplice quanto potente, è stata ripetuta più volte da Macchiavello durante l’intervista, a sottolineare quanto la paura sia una componente naturale del lavoro da inviato di guerra. Il cronista ha raccontato, tra gli altri, un episodio vissuto in Iraq: si trovava in un edificio insieme a una quarantina di giornalisti quando dei militari inglesi li avvertirono che stava per arrivare un gruppo di soldati a ucciderli. Il consiglio fu di spostarsi immediatamente. Così, nel cuore della notte, Macchiavello e gli altri, si ritrovarono a percorrere un’autostrada minata. Si rifugiarono in un’auto e ricevettero istruzioni su come comportarsi in caso di attacco: avrebbero dovuto uscire dal veicolo, buttarsi a terra e rotolare giù nella scarpata. “È chiaro che lì te la fai sotto”, ha sottolineato Macchiavello alla fine del racconto, senza nascondere la durezza di quelle situazioni. Nei momenti più difficili, il pensiero corre inevitabilmente ai proprio cari. All’epoca della guerra in Afghanistan, quando sua figlia era ancora una bambina, la chiamava ogni sera per mostrare, tramite videochiamata, l’alloggio in cui viveva: un pollaio adattato a dormitorio, nel tentativo di sdrammatizzare la guerra e farla sorridere.
“Quale notizia che non ho raccontato mi sarebbe piaciuto raccontare? Tutte! Non esiste al mondo lavoro più bello”
E sul tema delle pressioni, dei condizionamenti e dei tentativi di censura dei suoi servizi dal fronte, Macchiavello è stato chiaro: “Se non posso raccontare, cosa faccio?”. Così, l’inviato ha espresso il cuore del suo mestiere, ponendo una domanda fondamentale per ogni giornalista, che deve raccontare ciò che vede, ciò che accade, senza filtri. “Io voglio farlo liberamente”, ha affermato, sottolineando l’importanza della libertà di informazione come essenza stessa della sua professione e raccontando poi di un episodio in cui questa libertà gli venne negata. Durante un periodo in Iraq, si trovò a fronteggiare una situazione complessa. Gli americani gli imposero di firmare un contratto che lo obbligava a non rivelare informazioni sensibili, come la posizione delle truppe, i numeri e altri dati cruciali. Questo episodio ha messo in luce un conflitto che ogni giornalista si trova a vivere: il dovere di informare, di raccontare la verità, e le pressioni esterne che tentano di limitare quella libertà. Macchiavello ha spiegato come questa imposizione non fosse solo un ostacolo pratico, ma anche un segno di come la verità possa essere manipolata o messa a rischio in contesti di conflitto. Eppure, nonostante le difficoltà, il giornalista non si è mai piegato, determinato a raccontare la realtà, anche quando le circostanze cercavano di ostacolarlo.

Per quanto riguarda il racconto delle emozioni provate durante il suo lavoro, Macchiavello ha preferito separarsi dall’ambito bellico, ritenendolo troppo scontato. “In quei momenti ti rendi conto di quanto sei incredibilmente fortunato”, afferma, riflettendo sulle condizioni di vita dei bambini in Albania, che rischiavano di morire per malattie che qui da noi sarebbero state curate senza difficoltà. Ha sottolineato che spesso, immersi nelle nostre vite quotidiane, non ci rendiamo conto di quanto le difficoltà che affrontiamo siano minime rispetto a quelle di chi vive in contesti di estrema povertà e privazione.
Ma Macchiavello non è solo “guerra”. Partendo dalla visione di un altro filmato, che ritraeva i tradizionali banchetti di Natale a Mediaset, il giornalista ha colto l’occasione per soffermarsi su un aspetto spesso trascurato del mondo televisivo: il lavoro di squadra. “La televisione è fatta di tanti ruoli, e bisogna conoscersi. Conoscere tutti significa fare squadra,” ha spiegato, evidenziando come, dietro ogni programma, ci sia un meccanismo complesso che funziona solo grazie all’impegno e alla collaborazione di molte persone, anche di quelle che restano lontane dai riflettori.

Il giornalista ha poi voluto sottolineare l’importanza della lettura per chi fa il suo mestiere. “Di cosa parlerebbe un libro scritto da Angelo Macchiavello?”, il giornalista ha sorriso e confessato di aver già iniziato a scriverne uno, mai completato a causa della pigrizia, in cui avrebbe voluto raccontare dietro le quinte dei suoi viaggi in luoghi remoti.
“Quale notizia che non ho raccontato mi sarebbe piaciuto raccontare? Tutte!”. Una risposta tanto breve quanto efficace, che ha strappato un sorriso al pubblico ma, al tempo stesso, ha mostrato ancora una volta la sua profonda passione per il mestiere di giornalista. Dietro quell’unica parola si è intuito il desiderio inesauribile di scoprire, raccontare e dare voce alle storie di ogni parte del mondo. “Non esiste lavoro più bello al mondo. Il nostro è un lavoro meraviglioso…”
